Di ritorno da quello che è stato il mio viaggio più lontano da casa fino ad ora, cerco di buttare giù tutte le sensazioni raccolte nel corso del tempo passato negli Stati Uniti. Giorno per giorno, annotavo su un diario delle piccole note, per poter ricordare i particolari, gli odori, i colori, ogni piccola sfaccettatura di ogni posto che sembra così tanto lontano dal nostro quotidiano. E che, in effetti, presenta molte differenze rispetto alla nostra cultura “europea”. Probabilmente questo post sarà leggermente più lungo del solito, ma cercherò di non essere dispersivo e di raggruppare i resoconti per eventi cardine. Come giudizio complessivo, posso dire di essere molto soddisfatto di quello che ho visto, sentito e provato; inoltre la ragione principale per la quale sono andato oltre oceano, il matrimonio di mio cugino, è stata sicuramente un’occasione ancor più particolare e sono contento che tutto sia andato nella giusta direzione e non vi siano state – troppe – complicazioni. Comincio a scrivere queste righe alle sei del mattino, complice il Jet Lag e la mia poca voglia di dormire sull’aereo; sfrutterò questo tempo per mettere insieme le idee e chiedo scusa per eventuali errori che potrebbero presentarsi in seguito, la ragione è legata al sonno che va e viene. Inoltre, tenterò di scrivere tutto di getto, per cui eventuali periodi o errori banali saranno sicuramente presenti. Ok, let’s start!
N.B. Questo articolo potrebbe essere sottoposto a successive revisioni.
Viaggiando si impara, forse…
Partiamo da Pisa con una bellissima giornata di sole – che, di per se, è una gran presa per il culo se qualcuno è pratico di questa città – e naturalmente il karma è sempre in agguato e fa coincidere la nostra partenza con una maratona cittadina. Le strade in centro sono chiuse e gli autobus non passano: ci tocca raggiungere la stazione a piedi. Cominciamo proprio bene. In un modo o nell’altro arriviamo in aeroporto e aspettiamo i ritardatari: il primo viaggio sarà con Serena, Daniele, Sandro e io; ulteriori membri raggiungeranno la squadra a Londra, il nostro scalo prima di procedere per gli Stati Uniti. Facendo, per l’ultima volta, colazione con cornetto e capuccino al bar (e questo vi assicuro che è fattibile solo sul nostro territorio) esponiamo i programmi del viaggio: Daniele espone la sua chiara intenzione di “sbundarsi” di Dr. Pepper, Sandro invece – e lo farà – punta agli hamburger.
Verso l’una e mezza saliamo sull’aereo e sembra che il karma a questo punto mi sorrida: accanto a me si siete un’americana davvero niente male. Solo dopo scoprirò la sua scarsa attitudine alla socialità e mi limiterò ad averla a fianco per quelle due ore scarse che ci separano dall’Inghilterra. Il viaggio sul primo aereo è abbastanza piacevole, nessuna emozione particolare, semplicemente un po’ di noia nell’aspettare di poter atterrare a Heathrow, ma siamo giunti sani e salvi alla nostra prima destinazione. Qui abbiamo trovato altri due compagni di viaggio: Matteo e Paola. Superati i controlli siamo partiti alla volta del nostro gate per montare sull’aereo che avrebbe portato i nostri sederi sull’oceano! Si tratta del mio primo viaggio intercontinentale, per cui è la prima volta che prendo un aereo di queste dimensioni. Devo ammettere che l’American Airlines non ha deluso le aspettative. Siamo stati abbastanza comodi per le quasi 8 ore di viaggio che ci aspettavano per raggiungere l’Aereoporto JFK a New York. Mi son visto qualche film e sono entrato nella top-ten di Tetris dell’aereo (e sticazzi…).
Senza dilungarmi troppo sul viaggio – tempo che comunque è passato piacevolmente – passiamo direttamente all’arrivo. Al momento dell’atterraggio, si inizia a intravedere la terra, degli spazi immensi che colpiscono per la loro grandiosità d’insieme. Naturalmente, nel passare sopra le città, si nota subito la grande differenza con l’Italia: al posto degli stadi di calcio, dalla tipica forma ellittica, si notano quelli di baseball, dalla forma triangolare (e non è banale come osservazione, salta davvero all’occhio), inoltre si nota come il “cemento” delle città lasci di colpo spazi a giardini e parchi super-curati, una differenza così radicale da risaltare anche da molto in alto (me ne accorgerò meglio a Central Park). Più avanti, l’oceano, immenso. Una volta atterrati, noto con piacere che se non sono presenti molti italiani sull’aereo nessuno fa un applauso al pilota per essere riuscito a fare il suo dovere.
Ora ci tocca la parte divertente: il controllo di ingresso negli Stati Uniti! Evitata, grazie a Dio, una generosa perquisizione delle cavità corporali, si passa alle domande di rito: “Di dove sei?”, “Da dove vieni?”, “Sei un terrorista?”, “Sei stato coinvolto nelle stragi naziste tra il ’33 e il ’45?”. Insomma, le solite domande che un benvenuto cordiale impone, con la piccola variante del rilevamento delle impronte digitali. Insomma, procede tutto bene – specie per Alessandro che becca un poliziotto di Agrigento – i bagagli arrivano subito e riusciamo a prendere lo shuttle per arrivare alla villetta dove ci attendono tutti gli altri, a Staten Island, isolotto decisamente più tranquillo della città. L’intenzione iniziale era di uscire appena arrivati, la realtà dei fatti è stata crollare come un corpo morto appena giunti a destinazione.
Scoprendo Manhattan
Mi sveglio e decido di partire all’esplorazione della casa, non essendoci ancora tutti è il momento buono anche per una doccia senza problemi di fila al bagno. Si tratta di una villetta su tre piani: quello più in basso è occupato da altre persone, i due in alto da noi, quasi tutti familiari. Tipica casina americana, in legno e mattoni, giardinetto di fronte con albero e scoiattoli e finestroni con persiane su tutta una parete della sala da pranzo (alias: camera mia). Dopo poco, ecco la prima sorpresa della giornata: Francesco, il cugino che si sposa, arriva con la futura moglie Marie a portarci la colazione: le ciambelle! Quelle glassate! Quelle del Dunkin’s Donuts, le mie arterie cominciano già a insorgere: non sarà una settimana semplice per loro. Il caffé, fatto con la macchinetta della casa alla “americana” è venuto uno schifo, per cui meglio mangiarci su qualcosa di estremamente dolce per dimenticare.
La prima cosa da fare a New York, è stata quella di provarci i vestiti da “damigelli” per il matrimonio imminente. Attività comunque simpatica, condita dalla particolarità di questa parte della città: la maggioranza degli abitanti ha origini Italiane, per cui la sarta delle donne era Calabrese, mentre il simpatico sarto di noi uomini, Gregorio, veniva da Sciacca. Quest’uomo in particolare, si è poi rivelato una preziosa fonte di aneddoti nei giorni a seguire, racconti conditi da un’ampia gestualità e un’accento siciliano misto ai 40 anni di vita negli states. Ma di lui parleremo ancora più avanti.
Archiviata questa piccola parentesi, si parte alla volta di Manhattan. Per arrivarci in comodità è sufficiente prendere il Ferry Boat gratuito dall’attracco non lontano da casa nostra. Il tragitto dura circa una ventina di minuti e da questo giorno in poi lo prenderemo ogni giorno per muoverci. La vista merita. Si passa di fronte alla Statua della Libertà e al panorama “tipico” dei grattacieli della Grande Mela. Arrivati a destinazione, facciamo il biglietto settimanale della metro e partiamo alla volta del centro, dalla 42a strada. Da qui la processione, ci si orienta attraverso un incrocio di Streets e Avenues, la metro procede progressivamente attraverso un numero crescente di Streets, salvo che per la prima volta, lo spirito cittadino ci pervade e come dei perfetti pendolari cominciamo da subito ad annoiarci del tragitto.
Poi si arriva: si comincia proprio dalla celeberrima Time Square, centro nevralgico della città. Quello che si vede nei film, per intenderci. Partiamo dalle sensazioni che non posso inserire visivamente in una foto. Il caos: un viavai di persone che si muovono come una marea che però corre in direzioni diverse. Le auto si muovono in grosse colonne, il rumore c’è ma non è assordante, sembra quasi accompagnare la passeggiata e lo stesso caos è quasi di compagnia, come se cullasse chi cammina verso la propria meta. Non è un posto tranquillo che di colpo diventa caotico, è un posto dove la vita si muove velocemente. Non è il luogo ad adeguarsi agli eventi, ma le persone ad adeguarsi ai ritmi frenetici. Poi, gli odori: ovunque si vada c’è un forte odore di cibo, più che altro di grasso o carne arrostita, merito dei venditori ambulanti praticamente onnipresenti in ogni angolo della strada che offrono i cibi più vari.
Anche se arrivati da poco, scatta un leggero languore. La pancia ci ricorda che pur essendo cambiato l’orario, i nostri ritmi biologici restano belli attivi e puntuali. Si decide di cercare un posto dove mangiare, il mio vero esordio per quel che riguarda la “cucina” americana. La nostra scelta cade su TGI Friday’s, dove una simpatica cameriera si offre di farci anche una foto. Qui, provo il mio primo hamburger “American Style”, devo dire di essere rimasto decisamente soddisfatto. La cultura della carne è radicalmente diversa da queste parti, lo stesso hamburger è più alto e accompagnato da salse e salsine che altrove sono trascurate. Il tutto comprensivo di patatine iper-speziate (adoro questa cosa) e da fiumi di Pepsi, con bicchieri che vengono riempiti non appena giungono alla fine. Non è stata di sicuro la migliore mangiata Newyorkese, ma come primo approccio non c’è male!
Usciti dal locale, ci siamo mossi in direzione Central Park osservando attorno a noi il progredire di grattacieli e bandiere americane (ci sono ovunque bandiere). Il percorso si è articolato in tappe, la prima delle quali è stata al Rockefeller Center. Questa parte di NY è invece famosa per la pista di pattinaggio presente alla sua base, anche se quasi a Maggio, la pista era ancora attiva e funzionante e attorno alla piazza, migliaia di turisti fotografavano le acrobazie di pattinatori più o meno capaci. A due passi da laggiù anche il Lego Store, dove ho scoperto con estrema tristezza che anche negli U.S.A. i mattocini costano comunque tanto. E io che speravo di tirarmi su una nuova collezione con qualche dollaro, tsk. Da lì abbiamo ripreso a camminare anche per la 5th Avenue, nota per i numerosi negozi, molti dei quali di stilisti italiani, riconoscibili dalla vistosa bandiera tricolore posta fuori dagli ingressi.
Cammina cammina, arriviamo anche a Central Park. Qui c’è davvero da fare una prima osservazione: è pazzesco come in questa città si passi dal cemento e mattoni dei grattacieli al verde pubblico. Un passaggio, brusco e violento che offre un contrasto davvero suggestivo. Essere all’interno di un parco – bellissimo, curato – e guardare attorno a se, oltre gli alberi, grattacieli altissimi e colonne di auto infinite che si muovono nella stessa direzione. Tuttavia, i cittadini vivono questa realtà nel loro quotidiano con disinvoltura e chi passa a fare jogging non fa troppo caso al fatto che pochi metri più in là c’è un’autostrada a 6 corsie. Gli stessi piccioni sembrano quasi subire indifferenti l’assenza di alberi pochi metri fuori dal palco e affollano il palo di un semaforo. All’interno del parco, molte coppie facevano le foto del proprio matrimonio, la cosa davvero bizzarra è l’aver beccato novelli sposi di coppie gay in tutti i casi. Tuttavia il tempo sembra non assisterci troppo e comincia pure a piovigginare, ma noi imperterriti proseguiamo, ma avvicinandoci verso casa.
Lungo la strada verso casa, abbiamo incontrato gli ultimi componenti del nostro gruppone di italiani, quelli più anziani. I diversamente giovani, per essere “politically correct”. Uniti a loro nei pressi del Ferry Boat, sponda Manhattan, siamo andati a pochi passi da lì dove sorge Wall St. famoso centro dell’economia mondiale. In auge anche per il recente film con Di Caprio. Pur possedendo delle azioni molto solide, degli investimenti audaci e tutto il sarcasmo del caso, non ci hanno fatto entrare dentro. Per cui ci siamo limitati a qualche foto con il famoso “toro” nella piazza lì vicino e abbiamo concluso con questa passeggiata il primo giorno.
Dove osano gli aerei
L’obiettivo oggi è di fare le persone con una certa cultura, mantenendo però lo spirito virile e mascolino che ci contraddistingue. Finito di truccarci, abbiamo deciso di puntare alla visita dell‘Intrepid Sea-Air-Space Museum, sulla 46a strada. Si tratta di una portaerei della seconda guerra mondiale, dove sono presenti pezzi di storia dell’aviazione e della nautica. All’arrivo, la nave si presenta imponente dal molo ove è ormeggiata, fortunatamente abbiamo beccato un momento in cui la fila era leggermente più gestibile rispetto a qualche minuto dopo e siamo entrati senza troppi problemi. Il giro completo, avrebbe previsto anche la visita allo Space Shuttle e l’audio-guida, noi per ragioni economiche abbiamo preferito usufruire unicamente del biglietto di base che consentiva l’accesso al museo vero e proprio sulla portaerei e successivamente al sottomarino ormeggiato a fianco. Una visita sicuramente molto interessante e suggestiva, anche nel vedere il panorama dalla stessa nave.
Il tour della nave consisteva in tre piani: sul ponte era possibile vedere i caccia “storici” parcheggiati in bella mostra, dove tra l’altro era in corso un piccolo concerto per un motivo che è rimasto oscuro. In fondo alla portaerei, dentro un capannone, si trova lo Space Shuttle che però non ho visto. Comprensivo del giro, in perfetta libertà di movimento, era l’esplorazione all’interno della nave per osservare postazioni di comando, mense, alloggi e quant’altro riservato all’equipaggio. Nei due piani inferiori, oltre a ulteriori alloggi e servizi, era presente un museo dell’aviazione militare e non, con la possibilità di provare un simulatore di volo. Subito dopo, la visita del sottomarino. Qui è stato molto curioso l’ingresso: per entrare occorreva superare quella che Alessandro ha denominato “prova dell’inguine”, ovvero il passare attraverso una porta ellittica abbastanza stretta; chi non passava agevolmente da questo spazio non poteva entrare negli angusti spazi del sottomarino. Angusti sul serio: in certi punti non riuscivo a passare dritto e vi erano letti a castello a quattro posti in punti non più alti di un paio di metri o poco più.
Il ritorno è stato caratterizzato da un nuovo hamburger, ma questa volta nella zona Hell’s Kitchen, non ricordo il nome del locale ma ho potuto accompagnare il panino con gli Onion Rings giganti, cosa che adoro e che in Italia è difficile trovare. Lo stesso hamburger aveva al suo interno una mezza cipolla rossa, io adoro la cipolla, questo posto è il paradiso! Con la pancia piena e un alito alla cipolla che potrebbe stendere un cavallo da corsa, ci dirigiamo verso l’immancabile Time Square, punto nevralgico delle nostre gite. Approfitto per visitare Toys ‘r Us, negozietto di giocattoli sviluppato su tre piani in pieno centro, al suo interno una ruota panoramica; l’ultimo piano è caratterizzato da enormi sculture di Lego! Tutto molto carino. Tuttavia, non abbiamo finito qui. Pochi metri più avanti, siamo entrati nel Disney’s Store, più piccolo del precedente ma tutto a tema Disney/Marvel; la vera attrazione di questo posto era lo spazio dedicato a Frozen, dove decine di bambine cantavano il theme principale, in particolare una – con non più di 4 anni – cantava la canzone emulando i gesti della protagonista nella scena proiettata alle sue spalle, molto dolce. Tutto questo mi ha fatto pensare a quando il mio coinquilino Domenico fa la stessa cosa in casa, a Pisa: “Let it goooooo, let it goooooo!!”
Obbligatoria anche una sosta da Starbucks, dove non ero mai stato per convinzione che per quanto riguarda il caffé, noi italiani non abbiamo nulla da invidiare al resto del mondo. Questa convinzione ne è uscita fortificata. Ho preso il celeberrimo frapuccino e un cookies, per digerire entrambi credo ci vorrà ancora qualche settimana, probabilmente dedicherò un post ad hoc per commentare la cosa; il cookies invece era stranamente morbido e molto dolce, in tutta sincerità non capisco perché tutta questa gente esca pazza per questo posto: un qualunque bar in Italia è in grado di offrire una qualità di caffé/pezzi dolci decisamente superiore. Messa da parte anche questa esperienza siamo tornati verso casa, in metropolitana. Qui è cominciata una mia riflessione sulla particolarità dell’ambiente attorno, salvo che soltanto noi Italiani parlavamo, il sistema di trasporti è regolare e semplice da utilizzare e comprendere, nel sottosuolo di NY una babele di lingue si muove a orari scanditi e facendo scattare i tornelli. Quello che davvero colpisce è la differenza sociale e culturare che è possibile trovare in ogni singolo vagone: dal palestrato di colore, con la musica a volume folle, che muove la testa ritmicamente, alla signora altezzosa che resta guardinga per tutto il viaggio. Dal signore in giacca e cravatta e badge agganciato ai pantaloni, appena uscito dal lavoro, a me che scrivo su un quadernino di lui e della signora che ho di fronte, con una verosimile consapevolezza che non ci incontreremo mai più, ma per pochi minuti abbiamo condiviso un vagone.
Dal ponte al parco, limousine e cocktails
La successiva meta, destinata alla nostra casinara visita, è stata la zona dove sorge il notissimo ponte di Brooklyn, relativamente vicina a dove eravamo sistemati. Preso il ferry, abbiamo percorso la costa dell’isola di Manhattan per un po’ fino a trovarcelo di fronte. Uno di quei tipici panorami che vedi nelle grandi produzioni di Hollywood; di fatto, non si tratta di un ponte lunghissimo, ma la sua struttura a colonne e fili ne rende l’apparenza singolare. Per arrivarci, abbiamo percorso una lunga banchina, dove era possibile affittare anche un elicottero per visitare la zona dall’alto, al modico prezzo di 1000$, per quattro persone. Allontanati celermente dalla zona “elicotteri”, prima di ripensarci, siamo arrivati in un molo dove erano ancorate delle grandi barche a vela che contrastavano sensibilmente con l’intorno di traghetti moderni e palazzoni alti; purtroppo, erano in corso molti lavori sulla strada per il ponte e l’atmosfera ne ha leggermente risentito, ma noi abbiamo proseguito senza sosta.
Abbiamo proseguito per un po’, fino ad arrivare all’ingresso pedonale del ponte. Indecisi se percorrerlo tutto o meno, abbiamo cominciato a camminare… fino alla fine. La struttura, vista dall’interno, è ancora più particolare. La passerella pedonale è in legno o strada vera e propria, divisa in due corsie separate da una riga bianca: una per i pedoni e una per i ciclisti che puntualmente mandano a quel paese chiunque invada la loro corsia. Il tutto è caratterizzato anche da un continuo tremore dovuto al passaggio delle auto e della metro e dall’essere sorretti da quei caratteristici fili di acciaio che identificano totalmente questa costruzione. Non si tratta di un percorso molto lungo (circa 1,8 Km), ma è davvero imponente sentirsi circondati da cavi tesi di acciaio attaccati ad altissimi pilastri di cemento.
Completato anche il ponte, ci siamo diretti verso la metro. Quest’occasione è stata utile per scoprire la differenza tra Subway Local ed Espresso; soprattutto, per capire che la local fa tutte le fermate e l’espresso solo i pallini bianchi. Insomma: volevamo arrivare all’81a e siamo finiti alla 116a per tornare indietro. Riusciti finalmente a rivedere la luce dell’81a strada, ci siamo trovarti di fronte al famoso Museo di Storia Naturale, con davanti la bella statua a cavallo di Roosevelt che caratterizza quello che è un ingresso straordinariamente trionfale. La nostra gita era però diretta nuovamente verso Central Park, quest’oggi il tempo era migliore e ho potuto goderlo maggiormente. Oltre alla passeggiata rilassante al suo interno, ai numerosi scoiattoli e uccellini che ti si avvicinano a pochi centimetri, alle barchette nel lago e le panchine di fronte a panorami di verde misto grattacieli, ho avuto occasione di provare il mio primo vero Hot Dog statunitense da uno di quegli ambulanti presenti all’interno del parco con i loro carretti. Preso con senape e ketchup, al primo morso la prima straordinaria sorpresa: è piccante! Buonissimo, il salsicciotto è speziato in maniera particolare da renderlo maggiormente saporito e vagamente piccante, e il sapore ci guadagna moltissimo. Altra grande soddisfazione me l’ha data il simpatico scoiattolo che è rimasto in posa vicino a me, permettendomi di fotografarlo anche con il mio semplice obiettivo di base.
Dopo un lungo giro e una scottatura per il sole cocente, abbiamo preso ancora una volta la metro in direzione 34a Strada, dove è situato l’Empire State Building. Si tratta dell’edificio più alto per buona parte del ‘900, uno dei grattacieli più conosciuti al mondo. Quello che davvero colpisce, non sono tanto i suoi 381 metri di altezza, ma il fatto che siano distribuiti su una base relativamente piccola. Non saprei spiegare, non si tratta di una costruzione “massiccia” in se, ma semplicemente “alta”. Il che rende l’aspetto ancora più slanciato verso il cielo. Probabilmente bisogna vederlo dal vivo per comprendere questa mia osservazione. Lì vicino, siamo andati anche a Macy’s, The World Largest Store per le signorine che dovevano fare alcuni acquisti; anche se la merce esposta non mi sembrava di gran gusto. Ma boh!
Il ritorno verso casa è stato anche abbastanza particolare. Finalmente, sono riuscito a prendere il fantomatico Ferry boat con le ringhiere e sono riuscito a fare qualche foto senza i vetri di mezzo al panorama che scorreva oggi giorno davanti ai miei occhi dietro alle macchie di usura dei grandi finestroni. La giornata era bella, l’unico fastidio è stato il forte vento presente sul ponte, che non mi ha però impedito di mettere a segno qualche scatto! Subito dopo, siamo andati a fare un po’ di spesa da un simpatico indiano, che tutto sommato non aveva nulla nel suo negozio. La cosa saltata subito all’occhio sono state le uova bianchissime (quelle che si vedono nei film, pure) e le scatole di spaghetti da 220gr; cioè: che cavolo di quantità è 220gr? Non la mangio nemmeno da solo una quantità del genere di pasta. Andiamo!
Anche se abbiamo avuto una giornata piena, il tempo di arrivare a casa e fare una doccia ed eravamo già pronti per uscire. Francesco, lo sposo, mi ha parlato di una sorpresa per questa sera, l’intenzione è di portarci in un locale sul terrazzo di un palazzo, dal quale si vede buona parte di Manhattan notturna. L’unica richiesta è stata quella di un abbigliamento poco “sportivo”, tirata fuori la mia giacca meno peggiore (che poi era l’unica che avevo) ero pronto a vivere quello che mi avrebbe offerto la serata. Subito l’arrivo è sorprendete: all’oscuro di tutti, o quasi, i novelli sposi si presentano su una Hummer Limousine bianca, si parte subito con l’American Style! Alla grande. Dentro, brindisi con spumante in ghiaccio, musica e divertimento tra giovani. Una volta entrati in auto, sono state definite le varie tappe di avvicinamento al locale del quale ho parlato prima. Essendo sera, la prima meta obbligata è stata una terrazza dalla quale era possibile vedere lo Skyline notturno di Manhattan. Qui ho pianto per non aver portato con me il cavalletto, necessario per il tipo di foto che intendevo fare, di fatto i risultati non sono venuti gran che, ma era appena l’inizio della serata.
Risaliti sulla nostra Hummer dopo circa mezz’ora siamo partiti alla volta della nostra seconda tappa, riguardante la cena. Ancora una volta, l’idea era di farci provare qualcosa di realmente tipico della città, per cui si è andati verso lo Shake Shack di Madison Square Park, una catena di ristoranti che prepara hamburger, patatine, hot dog e via dicendo. Di questa parte non ho foto, per ovvie ragioni (le mani unte e bisunte). Devo però ammettere che si è trattato del migliore hamburger mangiato durante questa settimana, su consiglio ho preso lo Shack Burger Double (con doppia razione di carne), aggiungendoci solo senape. Il risultato è stato fantastico, un gusto incredibile; la controprova di una cultura “carnivora” radicalmente diversa rispetto alla nostra.
Finita la cena, si è partiti alla volta del locale vero e proprio. Per entrare occorreva mostrare un proprio documento di riconoscimento e avere più di 21 anni, lì sembrano essere molto fiscali a riguardo. Raggiunto l’ultimo piano, ci siamo recati sul terrazzino dove c’è stata una dura lotta per riuscire ad accaparrare un tavolo sufficientemente grande per tutte le persone presenti. Faceva abbastanza freddo, l’organizzazione del locale metteva però a disposizione delle mantelline rosse (sembrava una scena di Twilight) e delle piccole stufette elettriche ai bordi del locale. In compenso, la vista era mozzafiato, seppur il muro fosse alto, si intravedevano i palazzi più alti, come l’Empire ad esempio. Altra faccia della medaglia, oltre al freddo, i prezzi: 14$ era il minimo sindacale per ordinare un cocktail, e alcuni sembravano essere pure annacquati, ma credo si pagasse soprattutto il posto! Decisamente suggestivo e… rosso!
Il ritorno, sempre con l’Hummer, è stato caratterizzato da una leggera sonnolenza (non ci si è fermati un attimo negli ultimi giorni) e dalle canzoni di Rino Gaetano, tanto per rimanere in tema di italiani a NY. Tutto sommato, è valsa la pena di mettersi la giacca.
Dal MoMA al porco
La giornata è stata all’insegna della cultura: ordinaria e culinaria. Ma procediamo per ordine e partiamo dalla mattina. Finalmente sono riuscito a dormire qualche ora di più, mi sono abituato al divano letto e l’orario non fa così paura; non l’avessi mai fatto: tre ore di fila per il bagno. La ricompensa è stata la colazione con caffellatte e Donuts. Nel frattempo avevamo procurato di contrabbando una moka: non ne abbiano gli americani, ma il loro caffè è davvero pessimo. Mentre aspettavamo per l’odissea verso il bagno e otturavamo definitivamente quel poco che rimaneva al nostro sangue per fluire attraverso le arterie con la glassa e gli zuccheri di quelle maledette – buonissime – ciambelle, decidiamo di partire alla volta del MoMA, il museo di arte moderna sulla 53a strada; uno dei più grandi al mondo per fama e valore di collezione.
In fila per fare il biglietto, nemmeno troppo costoso, di 25$, vengo a scoprire che c’è la possibilità di ottenere uno sconto studenti: è sufficiente essere iscritti ad un’università del mondo per usufruire di uno sconto di oltre il 40%. Ricapitolando: al cinema di Pontedera con la tessera della mensa non posso ottenere lo sconto sul biglietto, mentre invece al MoMA di New York, con la stessa tessera, sono riuscito a pagare 14$ per l’ingresso. Detto questo, ci ritroviamo nella famosa struttura luminosa e moderna e prendiamo qualche piantina di colore verde (quelle in Italiano) per meglio orientarci attraverso i vari piani del museo.
Tra le varie sale, capolavori di ogni genere. Quello che però mi è piaciuta di meno è stata l’organizzazione della visita, leggermente dispersiva, si passava da una sala all’altra per poi dover tornare indietro a visitare parti che erano state tagliate fuori dal giro iniziale. Probabilmente, offrire regolarità ad un museo di arte moderna che dell’irregolarità ha fatto il suo punto nevralgico, non sarebbe stata una grande idea. A mio modesto parere, la visibilità di molte opere ne viene compromessa. Soffermandoci maggiormente sulle tele, abbiamo superato velocemente i primi piani con le mostre di arte contemporanea e oggettistica (troppo anche per me, senza un’adeguata guida) e ci siamo concentrati nei piani superiori dove sono conservati alcuni dei più grandi capolavori al mondo. Visti, magari anche di sfuggita, su qualche libro di storia dell’arte o su internet e mai realmente compresi come può essere fatto soltanto trovandosi di fronte all’opera originale; ed eccomi di fronte a tele di Van Gogh, Modigliani e Picasso, o agli scatti di Andy Warhol. Dalla celeberrima “Notte Stellata”, intravista quasi per caso alla “Persistenza della Memoria” di Dalì (nota anche come Orologi Molli) che mi ha colpito particolarmente per via delle dimensioni estremamente ridotte; me lo sarei aspettato molto più grande. Poi ancora “I tre musici” di Picasso passando per la Marilyn Monroe di Warhol. E tanti altri capolavori che colpiscono la vista e la sensibilità, in qualunque modo.
Dopo il museo, siamo usciti per cercare qualcosa da mangiare in giro. Di colpo ha cominciato a piovere, il tempo in questa città sembra essere quasi più tiranno rispetto a Pisa: cambia con una velocità impressionante. Dopo aver mangiato qualcosa velocemente, ci siamo diretti verso un locale dove avevamo appuntamento con gli sposi per la cena, non potendo compiere grandissime attività nel pomeriggio per via del tempo, decidiamo di recarci direttamente nella zona dell’appuntamento: Brooklyn, lì dovremo andare ad una “barbecureria” fortemente consigliata dal cugino Newyorkese. Le premesse sono quelle di una gran mangiata con l’orario atipico delle 17.00, e i piedi gonfi e doloranti. Sì, abbiamo camminato davvero tanto nei giorni precedenti, ma le cose da vedere sono davvero troppe e il tempo a nostra disposizione è purtroppo abbastanza limitato, anche nell’ottica dei preparativi al matrimonio.
Il posto in questione si chiama Dinosaur Bar-B-Que, ad un primo impatto sembra un posto carino, molto rustico. Tavoli e muri in legno, ventilatori sul soffitto, sport alla televisione; un ambiente che personalmente gradisco molto. Arriviamo con largo anticipo e decidiamo di aspettare al bar per evitare la pioggia fuori. Premetto che in questo frangente non ho potuto realizzare foto (metterò le foto che riuscirò a raccogliere dagli amici), il motivo è stato il fatto di aver cominciato a mangiare con le mani: alla fine della cena avevo le mani talmente unte da poter scivolare tranquillamente fino a casa su di esse. Finalmente arrivano tutti, possiamo cominciare a ordinare, Francesco suggerisce di lasciar fare a lui e lascia portare un po’ di tutto al tavola. Lì comincia la mia personalissima odissea: possiamo dire di tutto, ma in fatto di carne grigliata gli statunitensi sono anni luce avanti, avrei mangiato costolette a non finire; poi il pollo, il roast-beaf e quella carne a pezzetti di cui non conosco nemmeno il nome. Un profumo e un gusto inebriante, ogni costoletta sembrava quasi bruciata, ma in realtà era un leggero strato di salsa agrodolce che permetteva all’esterno di cucinarsi perfettamente, mentre l’interno rimaneva morbido e delicato. Tecniche che personalmente non conosco, ma devo dire che portano ottimi risultati! Inoltre le caraffe di birra accompagnavano coreograficamente e aiutavano a buttar giù quel porco sano che giaceva a pezzi nei vassoi. Ovviamente, per i più attenti alla linea il tutto è stato accompagnato da una Diet Coke, per evitare di ingrassare. Un po’ come dire: io mangio la Nutella, è vero, ma senza pane, perché il pane fa ingrassare.
Messo a dura prova dall’estrema quantità di cibo (che non siamo comunque riusciti a finire) torno con gran fatica verso casa, boccheggiando in metropolitana. Le gallerie, scorrono veloce ai lati e dai finestrini la luce fioca delle stazioni pervade il vagone a tratti, attorno a noi la gente fa silenzio e si sentono soltanto le chiacchiere del nostro gruppo. Le uscite sono lunghe scalinate che ci portano ai piedi di insormontabili grattacieli. Il discorso filosofeggiante chiude questa giornata, caratterizzata da una mattinata culturale a favore di grandi artisti contemporanei e da un pomeriggio in cui ho probabilmente sterminato una razza suina.
Calare, magiare e guadare
Giornata decisamente lenta. La stanchezza dei giorni scorsi comincia a farsi sentire, e la pioggia continua incessantemente a battere sulle finestre dalla mattina presto; la nostra gita ne risulta pesantemente condizionata. Archiviata la mattinata, senza troppe emozioni, siamo andati a provare i vestiti dal sarto. Adesso, occorre aprire una piccola parentesi su questo punto. Tale sarto di nome Gregorio, se non sbaglio, è Italiano; a 18 anni decise, col fratello gemello, di andare via dalla Sicilia e vive a NY da oltre 40 anni. Come tutti i Siciliani che si rispettino, si tratta di un simpaticone, un omone grande e grosso con gran gusto per gli abiti, che però non ha disdegnato di raccontarci qualche aneddoto di gioventù. In particolare, una storia riguardante le attività di scambio ragazze con il fratello gemello da giovani; senza stare qui a raccontare il fatto nei particolari: raccontava con dettagli e ampia gestualità le vicissitudini sessuali compiute con maestria insieme al fratello, con la parola che sarebbe diventata il must dei giorni a seguire: calare. Come a dire: “Ho conosciuto quella ragazza, e gliel’ho calato”. Ora immaginatelo detto 23 volte in una stessa frase da un italo americano, e capirete il perché questa vicenda merita di essere trascritta anche in questo contesto. Un grande.
Il pomeriggio si è poi distinto per le prove del matrimonio, evento molto particolare a cui gli americani sembrano tenere molto. Si è svolta, in forma rapida, tutta la messa e si è provato come entrare nella chiesa, come percorrere la navata sia in ingresso che in uscita. Chi avrebbe letto e dove ognuno si sarebbe dovuto posizionare durante la messa. Fatto sta, che il giorno del matrimonio avremmo poi cambiato tutto, ma questa è un’altra storia.
La sera invece, si è svolta la tipica cena prima del matrimonio a cui hanno partecipato le rispettive famiglie degli sposi. In un locale molto carino, abbiamo mangiato discretamente. Non curanti che fuori la pioggia continuava incessantemente a cadere da quasi 24 ore senza tregua. Di fatto, appena usciti dal locale, siamo rimasti completamente bloccati da un lago d’acqua che si è formato al centro della strada. Qualche temerario ha provato ad attraversare l’acqua, che comunque arrivava fino alle ginocchia. Fortunatamente, in nostro soccorso è arrivato uno zio della sposa, il mitico Uncle Joe con il suo fuoristradone gigante che ha potuto far guadare a tutti il fiume con comodità e indenni. Una giornata decisamente piatta che si è però conclusa alla grande, only in U.S.A.!
Eggs, bacon and Soho
La giornata comincia nel migliore dei modi. L’intenzione è quella di cominciare a carburare con una bella colazione all’americana: uova e pancetta per intenderci. A scanso di equivoci mi affido per prima cosa alla canonica colazione Italiana con caffellatte e biscotti, così da non rischiare nulla. L’arduo compito di preparare tale pietanza, secondo i canoni imposti oltre oceano, spetta al più anziano di noi che per primo ha vissuto esperienze di incontri ravvicinati del tipo americano: Davide. Presa una dozzina di uova bianche, bianchissime – ma come fanno? Puliscono il sedere delle galline con la candeggina? – e il bacon di tacchino (tanto per rimanere leggeri), colui che porta l’esperienza ha cominciato a far girare per la casa quel piacevole odore di burro, uova e bacon che ogni persona dovrebbe sentire appena sveglio. Tanto per intenderci: il risultato finale è stato ottimo, ma per non lasciare spazio a caso abbiamo preso anche qualche Donuts glassato, così, tanto per farci la bocca e dare la botta finale a quel poco di salute che ancora latitava nel nostro corpo. Fortuna che da queste parti si trova a Diet Coke.
Dopo questa fantastica botta di vita mattutina, quello che ci serviva era una lunga passeggiata. Abbiamo deciso di andare nel quartiere SoHo, noto soprattutto per essere un quartiere costoso e ricco di negozi convenienti. L’idea è di girare alla ricerca di qualche regalino da farsi da fare. Abbastanza particolare nell’aspetto, presenta palazzi molto più graziosi rispetto al resto della città visitata, edifici decisamente più piccoli e massicci e caratterizzati da quelle orrende scale anti-incendio in metallo che ne rovinano totalmente l’estetica caratterizzandola all’inverosimile. In fin dei conti non ho fatto grandi acquisti, ma da qui abbiamo potuto incontrare nuovamente i prossimi sposi e il resto della famiglia per andare a mangiare in un altro posto particolare. Seppur al momento mi sfugga il nome, si tratta di un locale a tema sportivo, con l’aspetto di un pub inglese e con attaccate alle pareti le maglie autografate da giocatori di football, baseball, backet e calcio. Anche tante sciarpe di squadre italiane: Milan, Inter, Juventus… Avellino (wtf?). Essendoci anche, in coincidenza, la partita della Juventus, il piano inferiore era pieno di tifosi Newyorkesi che, armati di sciarpe e magliette, osannavano ogni singolo passaggio al portiere con urla e fischi. Valli a capire ‘sti americani!
Finito il pranzo, ci siamo mossi verso la Biblioteca Pubblica di Ny tra la 42a St. e la 5th Av. la particolarità di questo posto è la grande varietà di libri offerta pur essendo una biblioteca pubblica, ma gestita da una società privata senza scopi di lucro. L’ingresso è di quelli che ti sembra di aver già visto in qualche film ed è caratterizzato dai soliti portoni trionfali e da due leoni accucciati che sembrano far una perenne guardia ai cancelli. Da lì ci siamo spostati poco, se non alla sede di Radio Rock City, ma dopodiché siamo tornati verso casa con l’intenzione di riprendere le forze per uscire di sera.
La vera particolarità della giornata è stata la sera: il bel tempo ha consentito a me e mio zio di tentare qualche scatto dal Ferry Boat verso l’isola di Manhattan. Purtroppo, il tutto tremava molto e scattare di notte senza nemmeno l’ausilio di un cavalletto non era esattamente il massimo, ma ci abbiamo provato ugualmente con risultati accettabili per degli amatori.
Per finire in bellezza, la notte prima del matrimonio, siamo andati a vedere la suggestiva Manhattan by night, in particolare la zona di Time Square. Quello che davvero colpisce è la densità di gente presente anche ad ora tarda, si comprende il vero senso di quando NY viene descritta come “la città che non dorme mai”. Sembra esserci più gente adesso, rispetto al giorno, le luci dei negozi e dei mega-schermi, illuminano a giorno le strade e si può intendere che è notte unicamente fissando il cielo. L’atmosfera ha un tono e dei colori molto più saturi e sembra che per chi cammina la notte non sia mai arrivata o che l’assenza della luce del sole sia la semplice routine. Di fatto, gli unici a guardarsi attorno siamo noi turisti.
Ah già, che poi c’era pure un Matrimonio…
Tra le altre cose, siamo venuti fin qui per un matrimonio. Ridendo e scherzando una settimana è volata via velocemente e ci siamo trovati al fatidico giorno. Tante persone in casa da preparare e così pochi bagni per farlo. Per la mia entrata in extremis tra le fila dei “valletti”, ho acquisito il soprannome di Padoin, che aspetta pazientemente in panchina il suo turno e quando il Mister lo mette in campo tutti si aspettano che ripaghi ampiamente la fiducia! Per questioni di privacy e di fatto strettamente personale, non pubblicherò foto della cerimonia o degli sposi stessi, ma soltanto alcuni particolari della giornata che meritano comunque di essere raccontati, anche se qualcosa potrebbe saltar fuori anche a livello visivo.

Una limousine è venuta a prendere testimoni e sposo, ci ha portati in chiesa dove noi valletti ci siamo piazzati all’ingresso per offrire il nostro benvenuto agli ospiti entranti, fornendo loro il foglio col programma. Quando è stato il momento di cominciare, l’emozione era forte e si faceva sentire; il primo “ostacolo” è stato quello di percorrere la navata portando a braccetto la mia damigella, evitando sbavature. Sia io che Amina (il suo nome) ne siamo usciti perfettamente indenni, solo lei ha sbagliato posizione di arrivo perché nessuno l’aveva avvertita e cercava di avvertire me a sua volta pensando fossi io in errore. Caos da prima! Tuttavia, il matrimonio è andato liscio come l’olio e non resta altro che fare gli auguri agli sposi. Ripercorriamo la navata al contrario, in ordine inverso e questa volta offro ad Amina l’altro mio braccio e la scorto fino al fondo della chiesa; per poi accogliere i novelli sposi sulla scalinata esterna con un’infinità di bolle di sapone (il riso no, perché altrimenti poi ci toccava pulire).

A questo punto, comincia il cazzeggio selvaggio. Sulla limousine salgono tutti: testimoni, damigelle, le bimbe che hanno portato i fiori all’altare e via dicendo. Ci si ferma su un primo prato con vista mozzafiato su Manhattan per fare le foto. E qui parte una feroce girandola dei selfies che vede Amina primeggiare su tutti in questa specialità olimpica. Il fotografo tarda ad arrivare e noi cominciamo a fare qualche scatto del cavolo tanto per passare il tempo.
Infine siamo arrivati al locale, inutile dire che anche da qui la vista è qualcosa di magnifico. Probabilmente il primo particolare che salta subito all’occhio. Lo stesso locale è una struttura molto bella, con ampie vetrate che consentono di godere della Skyline, soprattutto la sera quando il tutto assume un aspetto ancora più suggestivo. In buona sostanza il ricevimento si è architettato in questo modo: dopo una prima sezione di foto delle famiglie, abbiamo potuto gustare un ottimo buffet più che abbondante, di seguito c’è stata la vera e propria entrata in scena. Il dj avrebbe chiamato ogni coppia, dai genitori fino agli stessi sposi, passando per testimoni; a quel punto bisognava entrare facendo un bel po’ di casino e “aizzando” al folla. Devo ammettere di essermi divertito ad essere coinvolto in queste situazioni, non lo avrei mai detto. Subito dopo, si cominciava con il primo lento della serata, a questo punto gli sposi cominciavano a ballare attorniati dalle coppie formate dai vari testimoni. Con un inglese abbastanza stentato ho provato ad avvertire la mia damigella delle mie note difficoltà nel ballare qualunque tipo di cosa, ma non è sembrata preoccuparsi più di tanto della cosa, rispondendomi ogni volta con un sorriso.
Conclusi i primi balli, è cominciata la cena vera e propria. A differenza di quanto facciamo in Italia, da queste parti tra una portata e l’altra si va direttamente a ballare. In questo modo, sicuramente si smaltisce, ma probabilmente si rischia di stramazzare al suolo dopo qualche minuto. Tuttavia, vogliamo correre il rischio e ci gettiamo nelle danze! Questa volta voglio proprio meritarmi un ottimo voto nelle pagelle del matrimonio! Molto emozionanti gli intermezzi di ballo del padre della sposa con la figlia e dello sposo con la propria mamma, l’organizzazione ha saputo cogliere tutti i momenti senza però esagerare nel turbare la piacevolezza della serata. Ah, giusto, avevo parlato anche di una splendida vista dal ristorante. No? E allora tocca mettere anche di questo qualche foto, sempre con la premessa di una strumentazione scarsa e del tutto inadatta agli scopi.
A mezzanotte, come ogni principessa che si rispetti, siamo tornati a casa. Non mi è dispiaciuto più di tanto: la giornata è stata molto divertente ma al contempo faticosa, le mie scarpe erano nuove e il giorno dopo avremmo dovuto prendere l’aereo che ci avrebbe riportato nel vecchio continente. Salutati tutti, siamo andati al pullman che ci avrebbe riaccompagnato a casa (eh, lo so: ma non si può sempre andare in giro in Limousine). Non ci restava altro che salutare gli ultimi rimasti, fare gli auguri agli sposi – che tanto avremmo rivisto il giorno dopo – e buttarci come un peso morto nel letto.
Il ritorno nella terra dei cachi

E alla fine sarebbe dovuto arrivare questo giorno, il giorno del ritorno in madrepatria. Alle 10.00 avevamo il check-out della casa in affitto, abbiamo quindi deciso di fare un ultimo brunch di famiglia per farci i saluti di rito. L’occasione è stata buona per provare giusto in tempo i pancakes, che fino a quel momento non ero riuscito a provare. Accompagnati da un sano caffé lungo e da una immancabile brocca di Pepsi, ho goduto della mia ultima colazione statunitense a base di pancakes e salsicce.
Il viaggio di ritorno è stato sinceramente meno suggestivo rispetto all’andata e per la maggior parte del tempo ho intervallato il sonno a dei film sull’aereo. Nessun evento in particolare da segnalare, se non la prova del mio primo body-scan, con tanto di applauso da parte dei sostenitori stranieri al mio passaggio. Insomma tra una cosa e l’altra, un viaggio durato decisamente meno e il controllo anti-droga al controllo bagagli di Londra, ce la siamo cavata egregiamente e sono qui sano e salvo a scrivere queste righe mentre il sonno arretrato tenta di fermarmi facendomi cadere la testa sulla tastiera a ritmi regolari.
Nel complesso un bel viaggio, divertente. Caratterizzato da una comitiva assai eterogenea ma allo stesso tempo divertente e piacevole. Credo che NY, al di là delle personali ragioni del matrimonio, sia una città che occorre sicuramente visitare una volta nella vita (magari in più di una settimana). Le cose da vedere e le opportunità sembrano essere infinite, specie per noi che viviamo una situazione del tutto particolare in Italia. Ok, bene. Ora non mi resta che trovare una bella chiusura a effetto. qualcosa del tipo: “e vissero tutti felici e contenti” ma con aria più mascolina. Non mi viene in mente nulla. Posso giusto rinnovare il mio auguri agli sposi e sperare egoisticamente di tornare presto a trovarli (e che ci vengano presto a trovare in Italia. Intanto questo blog è durato fin troppo e direi di concludere qui. Grazie a tutti quelli che hanno collaborato direttamente e indirettamente al viaggio e hanno dato una mano collaborare con tutti, grazie a foto, appunti e piccoli racconti da viaggiatore. Alla prossima!
Grazie mille! Sono contento anch’io di averti conosciuto!
Speriamo di rivederci presto, sia a NY che in Italia!
Stefano, E stato un piacere svegliarsi e leggere il tuo messaggio, magnifica interpretazione della tua visita alla citta di New York. Spero che avremo modo di conoscersi meglio, e condividere piu tempo insieme, siccome ho molta amicizia con la famiglia di Francesco mi sento vicino pure ai suoi amici italiani. Buona della famiglie di mio papa Tommaso, e mio nonna con Siderno. E stato un vero piacere leggere che qualcuno oltre che me ho capito il difetto sociale che molti americani soffrono di questo problema, Bravo Stefano! lol. Ho notato che gli scoiattoli “Squirrels” (in inglesi) in tuo foto – In america noi li chiamiamo sorci “rodentori” con le coda lunga. Ho pure che lei fotografato le scuole superiore e allora pensevo che quella contento che hai fatto un buon viaggio, spero ci rivedremo presto.